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Il sapere condiviso è un’utopia possibile.

21 Dicembre 2006

Per sgombrare il campo da alcuni equivoci.
di Wu Ming 1


"Ma se chiunque può copiare i vostri libri e fare a meno di comprarli, voi come campate?" Questa domanda ci viene fatta sovente, il più delle volte seguita da quest’osservazione: "Ma il copyright è necessario, bisogna pure tutelare l’autore!". Questo genere di enunciati rivela quanto fumo e quanta sabbia la cultura dominante (basata sul principio di proprietà) e l’industria dell’entertainment siano riuscite a gettare negli occhi del pubblico. Nei media e negli encefali imperversa l’ideologia confusionista in materia di diritto d’autore e proprietà intellettuale, anche se il rinascere dei movimenti e le trasformazioni in corso la stanno mettendo in crisi. Fa comodo solo ai grassatori e ai parassiti d’ogni sorta far credere che "copyright" e "diritto d’autore" siano la stessa cosa, o che la contrapposizione sia tra "diritto d’autore" e "pirateria". Non è così. I libri del collettivo Wu Ming sono pubblicati con la seguente dicitura: "E’ consentita la riproduzione, parziale o totale, dell’opera e la sua diffusione per via telematica a uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale". Alla base c’è il concetto di copyleft inventato negli anni Ottanta dal "free software movement" di Richard Stallman e compagnia e ormai diffusosi in tanti settori della comunicazione e della creatività, dall’informazione scientifica alle arti. Copyleft è una filosofia che si traduce in diversi tipi di licenze commerciali, la prima delle quali è stata la GPL [GNU Public License] del software libero, nata per tutelare quest’ultimo e impedire che qualcuno (Microsoft, per fare un nome a caso) si impadronisse, privatizzandoli, dei risultati del lavoro di libere comunità di utenti (per chi non lo sapesse, il software libero è a "codice-sorgente aperto", il che lo rende potenzialmente controllabile, modificabile e migliorabile dall’utente, da solo o in collaborazione con altri). Se il software libero fosse rimasto semplicemente di dominio pubblico, prima o poi i rapaci dell’industria ci avrebbero messo sopra le grinfie. La soluzione fu rivoltare il copyright come un calzino, per trasformarlo da ostacolo alla libera riproduzione a suprema garanzia di quest’ultima. In parole povere: io metto il copyright, quindi sono proprietario di quest’opera, dunque approfitto di questo potere per dire che con quest’opera potete farci quello che volete, potete copiarla, diffonderla, modificarla, però non potete impedire a qualcun altro di farlo, cioè non potete appropriarvene e fermarne la circolazione, non potete metterci un copyright a vostra volta, perché ce n’è già uno, appartiene a me, e io vi rompo il culo. In concreto: un comune cittadino, se non ha i soldi per comprare un libro di Wu Ming o non vuole comprarlo a scatola chiusa, può tranquillamente fotocopiarlo o passarlo in uno scanner con software OCR, o – soluzione molto più comoda – scaricarlo gratis dal nostro sito. Questa riproduzione non è a fini di lucro, e noi la autorizziamo. Se invece un editore estero vuole farlo tradurre e metterlo in commercio nel suo paese, o se un produttore cinematografico vuole farci il soggetto di un film, in quel caso l’utilizzo è a fini di lucro, quindi questi signori devono pagare (perché è giusto che ci "lucriamo" anche noialtri, che il libro l’abbiamo scritto). […] Fino a qualche anno fa un masterizzatore di cd lo aveva a disposizione solo una sala d’incisione, oggi ce l’abbiamo in casa, nel nostro personal computer. Per non parlare del peer-to-peer etc. Questo è un cambiamento irreversibile, di fronte al quale tutta la legislazione sulla proprietà intellettuale diventa obsolescente, va in putrefazione. Quando il copyright fu introdotto, tre secoli fa, non esisteva alcuna possibilità di "copia privata" o di "riproduzione non a fini di lucro", perché solo un editore concorrente aveva accesso ai macchinari tipografici. Tutti gli altri potevano solo mettersi l’anima in pace e, se non potevano comprarseli, semplicemente rinunciare ai libri. Il copyright non era percepito come anti-sociale, era l’arma di un imprenditore contro un altro, non di un imprenditore contro il pubblico.[…] 



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